Me saludò Maradona
Quelle che sembrano essere le ultime immagini di Diego vivo appartengono a un brevissimo filmato – brutto, perché indiscreto e triste, e allo stesso tempo bellissimo. Perché quelle immagini sono l’ennesima (e vorrei che esistesse un modo per elevare questo aggettivo ancora alla enne) testimonianza della sua generosità e della sua tenerezza.
Diego fa una convalescente passeggiata: pochi passi che è appena in grado di accennare, due persone lo sorreggono, una terza li segue con una sedia pieghevole, lui è curvo e rallentato.
Accanto alla persona che lo riprende dal patio vicino, c’è un bambino che prova a salutarlo un paio di volte: "Hola, Diego".
A guardare, pare impossibile che quella piccola voce possa anche solo varcare la distanza ovattata che sembra avvolgere Diego, l’ottundimento di quel corpo e di quel cervello.
E invece, un attimo dopo, lui si gira appena, muove il braccio faticosamente, si riconosce – per quanto impastata e fugace – la sua inconfondibile voce. E il tono sembra persino quello di sempre.
“Me saludò Maradona!” esclama tutto contento il bambino.
Me saludò Maradona. Una cosa che ci si potrebbe mettere in curriculum, tra i segni particolari della vecchia carta di identità, raccontare a ogni cena con gli amici come se fosse la prima volta.
Poche ore prima di morire, nello stato in cui versa, Diego non si risparmia quel gesto, regalando a quel bambino una contentezza e un ricordo enormi.
Con quella generosità e quella tenerezza che erano del suo modo di vivere e di giocare a pallone, e che credo siano state in parte il perché del suo modo di morire.
Lo so, è un filmato che abbiamo visto tutti, ma a volte penso che Diego lo si possa raccontare solo così: vedendolo e rivedendolo, guardandolo davvero, riconoscendolo negli aneddoti, gli episodi, i gesti. Che infatti sono quelli che mi fanno piangere di più.
Descriverlo, descrivere cos’è questo sentimento che proviamo, come abbiamo sempre percepito la sua personalità, non mi sembra mai sufficientemente efficace.
Limite mio, sicuramente. Che sono decenni che ho un file dedicato a lui, che vorrei scriverne, che a più riprese ci provo ma poi non ci riesco mai, mi sento sovrastata dall'emozione, mille idee, mille ricordi. Mi sembra di non trovare mai le parole giuste per questa cosa immensa e inedita che non riesco nemmeno a afferrare del tutto.
E infatti, rimando anche adesso.
Al file, aggiungo:
- la voragine apertasi mercoledì
- il dispiacere infinito
- la rinnovata e definitiva tristezza per le sue pene, per quei vuoti nell'anima che nemmeno l'amore del mondo gli poteva colmare; nemmeno il nostro – incondizionato, folle, soffocante, eterno
- l'idea che però almeno ci abbiamo provato e che lui lo abbia sentito, e se lo sia preso come sempre a modo suo – con generosità e con tenerezza.